Nascosto tra le imponenti vette delle Ande centrali, si erge Uturuncu, un vulcano che si guadagna il soprannome inquietante di “vulcano zombie”. Nonostante un silenzio eruttivo che dura da oltre 250.000 anni, questo colosso geologico manifesta ancora segnali di attività che solitamente associamo ai vulcani attivi: sbuffi di gas che si innalzano verso il cielo e sussulti tellurici che scuotono le profondità.

Uturuncu si sta risvegliando?
Oltre due decenni fa, occhi elettronici nello spazio, sotto forma di radar satellitari, hanno scrutato Uturuncu, la cima più alta della Bolivia sud-occidentale. Le immagini catturate hanno rivelato un fenomeno sorprendente: una vasta area di circa 150 chilometri intorno alla sua sommità si era sollevata e poi abbassata, assumendo una peculiare forma a sombrero. Questa insolita deformazione ha acceso la curiosità degli scienziati, spingendoli a indagare più a fondo per comprendere se questi movimenti e altre attività fossero i precursori di un possibile risveglio del gigante dormiente.
Unendo le preziose informazioni fornite dai satelliti con l’analisi meticolosa dell’attività sismica e sofisticati modelli computerizzati che simulano il comportamento delle rocce sotto diverse pressioni, i ricercatori sono riusciti a ricostruire un quadro più chiaro dell'”anatomia” interna di Uturuncu e a identificare la causa della sua inaspettata irrequietezza.
Generalmente, le eruzioni vulcaniche sono innescate dalla risalita del magma che si accumula in serbatoi sotterranei chiamati camere magmatiche, per poi farsi strada verso la superficie attraverso bocche e fratture. L’esplosività di un’eruzione è spesso legata alla densità del magma: un magma più denso intrappola i gas, aumentando la pressione fino a un rilascio improvviso e violento che proietta la lava con forza.
Lo studio condotto su Uturuncu ha rivelato uno scenario diverso. Nelle profondità del vulcano non si è riscontrato il classico accumulo di magma pronto all’eruzione. Al contrario, i ricercatori hanno scoperto un’intricata interazione tra magma, gas e fluidi salati all’interno di una rete idrotermale, un sistema complesso la cui attività non è ancora completamente compresa. Proprio questa inattesa interazione sembra essere la responsabile dei “brontolii zombi” che Uturuncu manifesta, svelando un nuovo aspetto della complessa dinamica che può animare anche i vulcani apparentemente spenti.
Il Corpo Magmatico Altiplano-Puna
Nelle viscere della Terra, tra i 10 e i 20 chilometri di profondità sotto Uturuncu, pulsa un’immensa riserva di roccia fusa: il Corpo Magmatico Altiplano-Puna. Con una straordinaria estensione di circa 200 chilometri, questo colossale serbatoio magmatico rappresenta la più grande struttura attiva di questo tipo conosciuta all’interno della crosta terrestre. Precedenti indagini scientifiche avevano ipotizzato l’esistenza di un dinamico sistema idrotermale che fungeva da collegamento tra questo serbatoio profondo e la catena montuosa che lo sovrasta, ma la natura precisa dell’interazione tra il magma e i fluidi all’interno di questa complessa rete rimaneva avvolta nel mistero.
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📘 Leggi la guida su AmazonSfruttando i segnali emessi da oltre 1.700 eventi sismici registrati tra il 2009 e il 2012, un team di scienziati ha realizzato immagini ad alta risoluzione delle stratificazioni superficiali della crosta terrestre al di sotto di Uturuncu. Sono state effettuate misurazioni delle variazioni elettriche e gravitazionali nel sottosuolo, unitamente all’analisi delle trasformazioni chimiche delle rocce. Questa sinergia di dati ha permesso di rivelare dettagli inediti del sistema di canali che si snodano sotto e all’interno del vulcano, tracciando il percorso di fluidi riscaldati dall’energia geotermica.
Le analisi hanno rivelato un processo dinamico innescato dal calore sprigionato dal corpo magmatico sottostante. Questo calore riscalda le acque sotterranee e provoca il rilascio di gas. Successivamente, questi gas e liquidi intraprendono una lenta migrazione verso l’alto, accumulandosi in cavità situate al di sotto del cratere vulcanico. Il loro movimento attraverso le intricate vie interne di Uturuncu si manifesta in superficie attraverso terremoti di modesta entità, emissioni di vapore e una graduale deformazione della roccia vulcanica, traducendosi in un innalzamento della superficie di circa un centimetro all’anno.
Le dinamiche interne di Uturuncu non solo forniscono una spiegazione plausibile per la sua persistente attività, ma suggeriscono anche uno scenario futuro in cui questo “zombie” geologico non sembra destinato a tornare in vita con una vera e propria eruzione in tempi brevi. Il dottor Mike Kendall, professore e direttore del dipartimento di scienze della Terra presso l’Università di Oxford e coautore dello studio, ha sottolineato l’assenza di segnali allarmanti.
“Non stiamo assistendo a un aumento crescente della sismicità. Un brutto segno sarebbe un aumento della sismicità, e poi una sismicità che inizia a migrare da grandi profondità a profondità molto più superficiali: di solito è un’indicazione che il magma è in movimento. Non stiamo vedendo niente del genere”, ha aggiunto Kendall, suggerendo che il vulcano stia semplicemente “degassando, sfogando vapore e calmandosi, semmai”.
Il dottor Benjamin Andrews, direttore del Global Volcanism Program presso il National Museum of Natural History dello Smithsonian Institution di Washington, DC, ha evidenziato il ruolo cruciale dell’integrazione di diverse tecniche scientifiche per ottenere una comprensione approfondita della struttura del sottosuolo di Uturuncu. Secondo Andrews, l’analisi isolata dell’attività sismica, della chimica delle rocce o delle proprietà fisiche “darebbe risultati interessanti ma alquanto ambigui”.
È la combinazione di questi metodi che ha permesso di identificare un sistema idrotermale, piuttosto che un’imminente risalita di magma, come la causa principale dell’attività di Uturuncu, fornendo una preziosa istantanea dell’interazione complessa tra magma, roccia e fluidi nelle profondità dei vulcani. Questa ricerca, ha concluso Andrews, riveste un’importanza fondamentale per la comprensione non solo dei vulcani, ma anche delle rocce granitiche, dei giacimenti minerari e dei processi di formazione della crosta continentale, sottolineando come alcuni vulcani possano manifestare una notevole attività “ma non necessariamente essere pronti per un’eruzione”.
Una cinquantina di enigmi geologici sparsi per il globo
Nel corso degli anni, l’attento lavoro del Global Volcanism Program ha portato all’identificazione di circa cinquanta vulcani “zombie”, giganti geologici che, pur mostrando un’età compresa tra i 12.000 e i 2,6 milioni di anni, continuano a manifestare flebili segnali di attività. Come spiega il dottor Matthew Pritchard, professore di geofisica alla Cornell University di New York e coautore dello studio, queste manifestazioni si traducono “per lo più in caratteristiche geotermiche come sorgenti termali e fumarole (aperture da cui fuoriescono gas caldi)”.
Poiché Uturuncu rappresenta uno dei numerosi vulcani “zombie” attentamente monitorati dagli scienziati in diverse parti del mondo, le nuove scoperte relative alle sue dinamiche interne potrebbero fornire indizi cruciali per distinguere quali tra questi colossi dormienti potrebbero rappresentare un potenziale rischio di eruzione. Alcuni vulcani “zombie” presentano temperature superficiali elevate e sono già oggetto di interesse per lo sfruttamento dell’energia geotermica e per la presenza di giacimenti minerari. Tuttavia, come sottolinea Pritchard, “molti sono pronti per ulteriori indagini”.
Il futuro di questi vulcani “zombie” rimane incerto. “Alcuni potrebbero essere in un lungo e lento declino, semplicemente raffreddandosi dopo i precedenti periodi più caldi. Altri potrebbero alla fine registrare un aumento dell’attività“, afferma Pritchard. “Ma non sappiamo ancora come distinguerli“. Esaminare con attenzione le intricate reti di condotti interni di un vulcano potrebbe rivelare promettenti giacimenti sfruttabili per l’energia geotermica e l’accesso a metalli essenziali per le moderne tecnologie, come rame, nichel e platino, aggiunge il dottor Kendall. Inoltre, questa combinazione di metodi di indagine potrebbe rivelarsi preziosa per analizzare qualsiasi tipo di vulcano, non limitandosi esclusivamente a quelli classificati come “zombie“.
“È un ottimo modo per comprendere meglio l’anatomia di un vulcano e il suo stadio di sviluppo“, conclude Kendall. “È molto importante per la valutazione del rischio e della pericolosità“. In definitiva, decifrare i segreti dei vulcani “zombie” non solo amplia la nostra conoscenza dei processi geologici profondi, ma fornisce anche strumenti cruciali per la previsione e la gestione dei rischi vulcanici a livello globale.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.