Nei primi giorni di gennaio del 1913 un trentaquattrenne malmesso arriva alla stazione nord di Vienna proveniente da Cracovia. Baffi cespugliosi, il viso che porta i segni del vaiolo, scarpe da contadino russo, l’uomo esce dalla stazione mentre imperversa una vera e propria tormenta di neve.
Sul suo passaporto c’è un improbabile nome “Stavros Papadopulos” che dovrebbe far pensare ad un’origine greco-georgiana. La sera prima a Cracovia quell’uomo aveva battuto per l’ennesima volta a scacchi Lenin. Il suo vero nome è Iosif Vissarionovič Džugašvili.
Abbandonato il nome di copertura, si farà chiamare Iosif Stalin. Prende il tram e scende in una via da cui è possibile vedere il tenebroso palazzo di Schönbrunn, la reggia imperiale da cui regna da ben sessantasei anni l’imperatore Francesco Giuseppe.
Come da istruzioni ricevute si reca di fronte al portone del civico 30 e suona al campanello della pensione Trojanovsky. La porta si apre, Stalin dice la parola d’ordine convenuta alla cameriera e si lascia la furiosa nevicata alle spalle.
Negli stessi giorni, un giovane croato lavora come autista presso lo stabilimento della Mercedes di Wiener Neustadt. Si chiama Josip Broz, è un donnaiolo strafottente di appena ventuno anni, al momento si fa mantenere da una ricca borghese che lo colma di regali e denaro, una parte dei quali spedisce in patria ad una donna da cui ha avuto un figlio, Leopard.
La ricca borghese, Lisa Spuner, rimane incinta di Broz che immediatamente la lascia. Il giovane croato cercherà nuove mature pollastre da mungere, ma un giorno tornerà in patria e dopo la seconda guerra mondiale ne diverrà l’incontrastato dittatore, assumendo il nome di Tito.
Sempre in quei primi freddissimi mesi del 1913 un altro giovane mingherlino che quasi faceva la fame e dormiva presso il dormitorio pubblico di Meidling, il Männerheim (“Pensionato popolare per uomini”) nelle vicinanze della stazione ferroviaria, dove vi era giunto nel dicembre 1910, mangiava alla mensa del Convento dei Fratelli della Carità, si trovava nella capitale dell’Impero Austro-Ungarico.
Guadagnava qualche spicciolo vendendo acquerelli da lui stesso dipinti ed era a tal punto emaciato che un passante ebreo, che vendeva vestiti usati e che probabilmente gli era riconoscente per aver dipinto alcuni cartelloni pubblicitari per il suo negozio, si tolse il cappotto e glielo regalò
Il suo nome era Adolf Hitler e negli ultimi tempi si era avvicinato alle posizioni antisemite che a Vienna si erano sviluppate da origini religiose in una dottrina politica, promosso da pubblicisti come Lanz von Liebenfels, i cui libelli venivano letti da Hitler, e da politici come Karl Lueger, borgomastro di Vienna, o Georg von Schönerer, che contribuì agli aspetti razziali dell’antisemitismo.
Da loro Hitler acquisì il credo nella superiorità della razza ariana, che formò le basi delle sue idee politiche.
Di li a meno di un anno anche il giovane Hitler verrà inghiottito dalla grande mattanza del Primo conflitto mondiale, ma poco più di una quindicina di anni dopo diverrà il feroce e spietato tiranno nazista che farà precipitare il mondo nell’orrore della seconda guerra mondiale.
Stalin, Tito ed Hitler in quei primi mesi del 1913 non erano altro che semplici comparse della Storia a Vienna, la città più cosmopolita, culturalmente ed artisticamente all’avanguardia, insieme a Parigi, del mondo intero. Tre uomini normali, due spiantati ed un rivoluzionario di seconda fila spedito da Lenin a studiare il problema della nazionalità dell’impero multietnico per eccellenza.
La Storia, però, li avrebbe condotti presto ad un ruolo tragicamente di primo piano nel destino di milioni di uomini.