Tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo effettuare un “grand tour” in Italia era un desiderio quasi ineludibile per intellettuali, artisti e studiosi degli altri paesi europei che a volte vi soggiornavano per molti mesi di seguito. La penisola ancora frantumata in una pluralità di staterelli era un potente magnete attrattivo per i fasti ormai lontani dell’antichità romana e del Rinascimento.
Come ci vedevano questi personaggi che scavallavano le Alpi attratte da un passato glorioso e dalle bellezze paesaggistiche del nostro paese? Come vedremo succintamente, i loro giudizi erano tutt’altro che lusinghieri anche se talvolta temperati da un amore sincero verso il nostro paese.
Tra i primi “appunti di viaggio” meritano una citazione quelli dell’abate benedettino Jean Mabillon che attraversando, verso la fine del Seicento, le regioni dalla Toscana alla Campania osservò la desolazione delle campagne poco curate o addirittura abbandonate, la rarità dei villaggi e la generalizzata denutrizione dei contadini.
Un altro ecclesiastico lo scozzese Gilbert Burnet, vescovo di Salisbury, nel 1685 stigmatizzava l’oscurantismo papista e la povertà della penisola che reputava una delle più arretrate di tutta Europa. Particolarmente critico era nei confronti del cattolicesimo romano: «Qui sono talmente presi dalle anime della gente da trascurare il benessere dei loro corpi»
All’epoca molto famoso, approda in Italia, nel 1728 Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu. Viene accolto con deferenza da sovrani, intellettuali, prelati con cui discusse amabilmente anche sulla condizione del nostro paese.
Poliedrico ed erudito, tracciò un ritratto impietoso della penisola nel suo Viaggio in Italia. Scrive, tra l’altro: «Le repubbliche italiane non sono che miserabili aristocrazie, che si reggono solo per la pietà che si ha per loro, e in cui i nobili, senza alcun senso di grandezza e di gloria, ambiscono soltanto a conservare il loro ozio e i loro privilegi»
L’unico luogo che salva è Roma, travolto com’è dal fascino della Città Eterna anche se Montesquieu usa parole di fuoco su papa Benedetto XIII, «molto odiato dal popolo romano, e persino la devozione ne è disprezzata, perché li fa morire di fame».
L’Italia di allora non era visitata però soltanto da turisti o da storici, anche giuristi come Servan e Dupaty, economisti come Jean-Marie de la Platière, scienziati come Joseph-Jérôme de Lalande, agronomi come gli inglesi John Symonds e Arthur Young percorsero in lungo e largo le scalcinate strade italiane.
Proprio i due agronomi inglesi tracciarono un quadro sconfortante dello stato dell’agricoltura italiana, stretta tra pratiche arcaiche ed una compressione delle libertà civili che ne minava il progresso.
Anche le persone meglio disposte verso la penisola come Goethe che visitando Roma aveva scritto «Sì, io posso dire che solamente a Roma ho sentito che cosa voglia dire essere un uomo», non avevano risparmiato strali durissimi sull’arretratezza del paese, dallo stato pietoso dei trasporti all’immondizia che si accumulava per le strade di città come Venezia e o Verona, dove il grande poeta tedesco soggiornò a lungo.
Anche nel Diciannovesimo secolo i grandi viaggiatori, in misura rilevante inglesi, percorsero il nostro paese afflitti spesso da una dicotomia che vedeva la ragione evidenziare senza mezzi termini povertà, arretratezza, provincialismo, incuria e dall’altra il cuore, riscaldarsi non soltanto per i fasti del passato ma anche per la bellezza dei luoghi e la clemenza del clima.
Forse il più celebre di questi grandi viaggiatori fu Lord Byron, il quale, con Childe Harold’s Pilgrimage, compì uno straordinario viaggio in versi attraverso i luoghi e i monumenti che costituivano per gli stranieri le tappe obbligate del “grand tour italiano”. Byron fu probabilmente il più indulgente di questi visitatori, da grande innamorato del nostro paese, il poeta inglese confidò che l’Italia manteneva il “suo fascino immacolato”.
Molto meno benevolo fu un altro poeta inglese il cui viaggio in Italia, nello stesso periodo di quello di Byron, fu segnato da un giudizio senza appello sugli italiani, definiti «una miserabile razza», senza sensibilità e immaginazione.
Di diverso tenore fu il giudizio di Jules Michelet, l’autore della celebre Histoire de France, che non manifestava alcun disprezzo per gli italiani, anzi indulgeva alla pietà e alla commiserazione per le loro condizioni.
Lo stesso si può dire di Stendhal, l’autore de Il rosso e il nero e La Certosa di Parma, che soggiornò a lungo in Italia diventandone un profondo conoscitore. Pur denunciando i vizi delle società italiane e di una parte della popolazione, Stendhal non mancava di evidenziare le attenuanti di certi fenomeni ed allo stesso tempo di incensare gli intellettuali più autorevoli del paese.
Nel 1803 inviato da Bonaparte con il ruolo di segretario d’ambasciata, François-Auguste-René de Chateaubriand rimaneva in Italia sette mesi e le sue testimonianze dimostrano plasticamente la sconfinata ammirazione per le gloriose vestigia dell’Antica Roma ed il disprezzo malcelato per le genti che abitavano la Città Eterna.
L’intellettuale tedesco Heinrich Heine, rincarava la dose scrivendo sul carattere degli italiani dopo un suo soggiorno nella penisola: «Il popolo italiano è intimamente malato, e i malati sono sempre più nobili dei sani perché solo l’ammalato è un uomo, le sue membra hanno una storia di sofferenze, sono nobilitate dal dolore»
Il modo in cui il nostro paese è visto dagli altri europei non cambia neppure alla fine del Diciannovesimo secolo, a 40 anni dall’Unità d’Italia se un intellettuale del calibro di René Bazin, evidenzia ancora i mali cronici del belpaese: l’estrema miseria di alcune regioni, il flagello della pellagra, l’eccesso di tasse e balzelli, il tormento dell’usura, lo spietato latifondismo delle regioni meridionali.
In conclusione, sull’Italia pre unitaria e persino durante i primi decenni dello Stato Unitario, il giudizio degli stranieri che hanno visitato e spesso soggiornato a lungo nel nostro paese è stato prevalentemente impietoso, focalizzandosi sull’arretratezza e l’abbandono della società, il bigottismo ed il provincialismo imperanti e persino sul carattere degli italianispesso dipinto con una ferocia che mal si accompagnava all’amore verso la cultura, i fasti del passato, le bellezze naturali ed il clima della penisola italiana.