La prima evoluzione della meccanica quantistica, che aveva avuto Planck ed Einstein tra i padri fondatori, è dovuta ad un brillante fisico danese Niels Bohr, che arrivò giovanissimo, nel 1911, in Inghilterra fresco di un dottorato conseguito a Copenaghen.
In valigia aveva fra l’altro una copia delle opere complete di Charles Dickens che usò per familiarizzare con l’inglese.
Bohr non era ancora quel gigante della fisica che conosciamo, ma considerava questa disciplina scientifica molto più promettente per la sua carriera del calcio che aveva giocato con ottimi risultati a livelli dilettantistici.
Borh iniziò a lavorare con i quanti nel 1912, a Manchester, alle dipendenze del neozelandese Rutheford, all’epoca uno degli scienziati più famosi del mondo. Rutheford aveva vinto nel 1908 il premio Nobel per la chimica nonostante fosse un fisico.
Bohr iniziò a lavorare con lui, più o meno quando Rutheford propose il suo modello atomico nel quale si prevedeva che l’atomo fosse costituito da un nucleo centrale molto denso e da elettroni, ancora più piccoli che lo circondavano.
I suoi primi successi furono la spiegazione della stabilità atomica e l’origine delle immagini spettrali.
Il modello di Rutheford suggeriva che gli elettroni si trovassero fuori dal nucleo ad una distanza molto maggiore del raggio (diverse migliaia di volte) del nucleo stesso.
I fisici però ritenevano giustamente che gli atomi non potessero essere in quiete: perché la forza elettrica causata dal nucleo positivo avrebbe attratto l’elettrone con carica negativa fino a farlo collassare sul nucleo stesso.
Per ovviare a questo risultato si immaginò che il sistema nucleo-elettrone fosse simile ad un sistema planetario, con gli elettroni orbitanti continuamente intorno al nucleo per evitare la caduta verso lo stesso.
Bohr però era preoccupato di un’incongruenza: secondo la teoria elettromagnetica classica, un elettrone orbitante deve irradiare luce. Di conseguenza progressivamente perde energia e conseguentemente precipita a spirale verso il nucleo stesso in meno di un millesimo di miliardesimo di secondo.
Il fisico danese ipotizzò allora che se tutta la materia rilascia radiazioni in blocchi (come si era accertato con il corpo nero) e la assorbe in blocchi (come dimostrato dall’effetto fotoelettrico), allora gli atomi che costituiscono la materia possono avere solo certi livelli di energia e non valori di energia intermedi tra un blocco e l’altro.
Bohr postulò che l’energia degli elettroni negli atomi era anch’essa quantizzata ovvero che gli elettroni non sono liberi di percorrere qualsiasi orbita ma soltanto certe orbite “discrete”.
Un elettrone può cadere su un’orbita più bassa, ovvero più vicina al nucleo, emettendo un quanto di energia elettromagnetica (fotone). Allo stesso modo può saltare su un’orbita più alta assorbendo un fotone.
Sarà poi Wolfgang Pauli che dimostrerà come ogni orbita elettronica può contenere soltanto un certo numero di elettroni.
Quindi gli elettroni possono cadere su un’orbita più bassa soltanto se c’è posto.
Oggi sappiamo che non dobbiamo considerare gli elettroni come minuscole particelle ma piuttosto come “onde” ed ogni onda elettronica si estende tutto intorno al nucleo.
Bohr riusci’ a spiegare anche il fenomeno dello spettro atomico ovvero che gli elementi tendono ad emettere luce soltanto in certe precise frequenze chiamate linee spettrali ed ogni elemento ha uno spettro diverso ed unico.
Bohr aveva applicato l’idea della quantizzazione di Planck alla struttura atomica ma non era riuscito a spiegare come gli elettroni saltassero da un’orbita all’altra. Il suo modello inoltre pareva funzionare soltanto per l’atomo di idrogeno che contiene un solo elettrone. Non riusciva a spiegare niente di più complicato.
Ci vorranno ancora dieci anni ed una successiva evoluzione della meccanica quantistica per completare il percorso iniziato da Borh.
Nel 1922 Bohr ricevette il Premio Nobel per la fisica “per i suoi servizi nell’indagine sulla struttura degli atomi e della radiazione che emana da essi”.