Contrariamente a quanto avviene oggi, patrizi e uomini facoltosi della Roma del primo Impero pranzavano esclusivamente presso le proprie case o come ospiti di altrettanti esponenti delle classi dominanti, mentre il resto della popolazione (ad esclusione della fascia dei poverissimi) pranzava molto spesso fuori casa in taverne, osterie e bettole che pullulavano in tutta Roma e in gran parte delle città romane.
Roma tra il I ed il II secolo era una città che contava circa un milione di abitanti. Questi ritrovi oltre che fornire cibo e bevande, su tutte vino allungato con acqua calda, erano luoghi dove era possibile giocare, assistere a qualche piccolo spettacolo e socializzare con una eterogenea massa di persone.
Giovenale descrive ad esempio gli avventori di una squallida bettola del porto di Ostia: schiavi fuggitivi, ladri, marinai, boia e becchini e qualche saltuario sacerdote eunuco. L’aristocrazia romana disprezzava e temeva quello che le taverne rappresentavano in termini di cultura popolare e di aggregazione delle masse subalterne.
Numerosi furono i tentativi di imporre tasse e restrizioni su questi esercizi. L’imperatore Tiberio proibì la vendita di pasticcini, Claudio secondo alcune fonti avrebbe vietato la vendita di carne bollita e di acqua calda (indispensabile per allungare il vino come era costume diffuso tra i romani), Vespasiano avrebbe proibito la vendita di ogni genere di cibo ad esclusione di piselli e fagioli.
Pur ammettendo che le fonti storiografiche dell’epoca siano esatte, queste misure di fatto non furono altro che azioni simboliche e propagandistiche che non ebbero alcun rilevante impatto sulla vita quotidiana. In realtà spurgata dalla propaganda delle classi dominanti la reputazione delle taverne era molto migliore di quanto venisse dipinta.
Si trattava di luoghi generalmente tranquilli dove non soltanto si andava a bere ed a giocare, ma rappresentavano una parte essenziale della vita quotidiana per tutti coloro (ed erano decine di migliaia) che non avevano una cucina adeguata nei loro appartamenti.
Si trattava per lo più dei cittadini che abitavano i piani superiori dei grandi condomini romani che raggiungevano anche sei piani, le cosiddette insulae, quelle che possiamo considerare l’equivalente delle nostre case popolari, dove a piano terra o al primo piano vivevano coloro che avevano un reddito dignitoso, mentre nei piani superiori si accatastavano le persone meno abbienti. Si calcola che sotto l’imperatore Settimio Severo questi “palazzoni” fossero circa 47.000 contro meno di 1800 domus.
Tutte le città romane pullulavano di ristoranti e taverne dove le persone passavano gran parte del loro tempo libero. Si calcola che Pompei avesse un centinaio di taverne a fronte di una popolazione di 12.000 abitanti più i viaggiatori di passaggio.
Taverne ed osterie erano costruite secondo uno schema collaudato: un banco di servizio rivolto alla strada per il cibo da asporto, una stanza interna con tavoli e sedie per chi si fermava a mangiare, un braciere o forno dove preparare pietanze e bevande calde ed un espositore per cibi e bevande. Le pareti erano spesso decorate con pitture che richiamavano scene di vita e del lavoro della stessa taverna.
Il gioco da tavolo e d’azzardo era, dopo la consumazione di pasti e bevande, l’attività più diffusa nelle osterie e nelle taverne. Anche in questo campo si poteva cogliere la “doppiezza” delle classi aristocratiche. Molti patrizi erano accaniti giocatori, secondo Svetonio, l’imperatore Claudio era talmente appassionato del gioco dei dadi che scrisse persino un trattato. Anche Augusto pare fosse un fan del gioco d’azzardo, ma data la sua smodata ricchezza, riforniva gli amici con cui giocava di una gran quantità di denaro in modo da non creare dissapori o sensi di colpa in seguito all’andamento del gioco.
Nonostante questo, il loro giudizio cambiava regolarmente quando il gioco era praticato dal popolo ed allora si bollava questa pratica come una depravazione che conduceva inevitabilmente verso il crimine. Si fecero pertanto numerosi tentativi per contenere il gioco d’azzardo tra la popolazione e per ridurre la responsabilità giuridica dei debiti contratti. Queste leggi ebbero lo stesso effetto di quelle sulle taverne: praticamente nullo.
In conclusione taverne ed osterie costituivano un ruolo centrale nella vita quotidiana di una grande parte della popolazione romana, occupando una parte significativa del tempo libero delle classi meno abbienti e riunendo nello stesso luogo le funzioni di un “ristorante” dove pranzare per chi non aveva una cucina adeguata nel luogo dove viveva, di “pub” dove bere un boccale di vino e di “bisca” dove giocare d’azzardo, soprattutto ai dadi.