Una recente scoperta scientifica proveniente dalla Spagna potrebbe presto offrire un rinnovato orizzonte di speranza per le persone affette dal malattia di Alzheimer. Un gruppo di ricercatori ha sviluppato un promettente farmaco candidato che si propone di contrastare la malattia agendo sulle sue fondamenta patologiche.
Contrariamente alla maggior parte dei trattamenti precedenti, focalizzati primariamente sulla rimozione delle placche amiloidi cerebrali, questo nuovo approccio mira a bloccare l’infiammazione dannosa che si ritiene alimenti la progressione della malattia.

Malattia di Alzheimer: la nuova comprensione del ruolo dell’infiammazione
L’Alzheimer rappresenta la principale causa di demenza a livello mondiale, con un impatto significativo sulla vita di milioni di persone e delle loro famiglie. Solo in Spagna, si stima che oltre 800.000 individui convivano con questa patologia neurodegenerativa. Attualmente, non esiste una cura definitiva e i farmaci disponibili offrono un beneficio limitato, principalmente nelle fasi iniziali della malattia. Tuttavia, recenti evidenze scientifiche suggeriscono che l’infiammazione cerebrale potrebbe non essere semplicemente una conseguenza della patologia, ma un vero e proprio motore della sua progressione.
Un team di ricerca dell’Università di Barcellona nutre la convinzione di aver identificato un meccanismo per inibire l’infiammazione cerebrale e, contestualmente, proteggere il tessuto nervoso attraverso l’impiego di una molecola di nuova concezione. Questo innovativo farmaco agisce su un enzima specifico, denominato epossido idrolasi solubile (sEH). La funzione fisiologica di sEH è quella di degradare molecole cruciali, note come acidi epossieicosatrienoici (EET), che svolgono un ruolo significativo nella riduzione dell’infiammazione e nella salvaguardia delle cellule nervose. La degradazione degli EET da parte di sEH produce composti che, al contrario, promuovono l’infiammazione.
Gli scienziati hanno osservato che, sia nei pazienti affetti da Alzheimer che nei modelli murini della malattia, i livelli di sEH risultavano insolitamente elevati, in particolare nell’ippocampo, una regione cerebrale di fondamentale importanza per i processi di memoria. L’inibizione farmacologica dell’enzima sEH permette al cervello di mantenere una maggiore concentrazione di composti antinfiammatori naturali, come gli EET. Questo approccio terapeutico si prospetta particolarmente promettente in quanto non si concentra su un singolo aspetto della complessa patologia dell’Alzheimer.
La malattia comporta una serie intricata di alterazioni, tra cui l’accumulo di placche di beta-amiloide, la formazione di grovigli neurofibrillari di proteina tau, la perdita progressiva di cellule nervose e l’attivazione di risposte immunitarie dannose. Riducendo l’infiammazione cerebrale e supportando la resilienza delle cellule nervose, gli inibitori di sEH potrebbero potenzialmente agire su diversi di questi meccanismi patologici simultaneamente. Proprio per questa ragione, i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione su questo enzima e hanno sviluppato un nuovo composto, denominato UB-SCG-74, i cui risultati preliminari appaiono incoraggianti.
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📘 Leggi la guida su AmazonUB-SCG-51: efficacia preclinica Iniziale nel modulare l’infiammazione e proteggere le funzioni cerebrali
Il percorso di questa promettente ricerca ha avuto inizio con lo sviluppo di una molecola precursore, denominata UB-SCG-51. Questa prima formulazione ha dimostrato una notevole capacità di penetrare la barriera emato-encefalica e di inibire efficacemente l’attività dell’enzima sEH. Test condotti su modelli murini affetti da una patologia analoga all’Alzheimer hanno rivelato che UB-SCG-51 non si limitava ad attenuare l’infiammazione a livello cerebrale, ma era anche in grado di rallentare significativamente la morte neuronale, ridurre l’accumulo di proteine tossiche associate alla malattia e, in generale, migliorare le funzioni cognitive. Tuttavia, il team di ricerca ambiva a superare ulteriormente questi risultati iniziali.
Sulla base delle promettenti evidenze ottenute con UB-SCG-51, il team di ricerca ha sintetizzato una versione modificata e ottimizzata della molecola, designata come UB-SCG-74. Questa nuova formulazione è caratterizzata da un assorbimento più efficiente da parte dell’organismo e da una maggiore persistenza nel tempo, potenzialmente traducendosi in una maggiore efficacia terapeutica e in una minore frequenza di somministrazione.
L’efficacia di UB-SCG-74 è stata rigorosamente valutata in topi geneticamente modificati 5XFAD, un modello animale noto per sviluppare rapidamente sintomi patologici che mimano strettamente quelli dell’Alzheimer umano. I risultati ottenuti nei topi trattati con UB-SCG-74 sono stati notevoli: si è osservato un significativo miglioramento delle capacità di memoria, un aumento della plasticità sinaptica (la cruciale capacità delle cellule cerebrali di comunicare tra loro) e una marcata riduzione dei segni di danno cerebrale tipici della malattia.
Un aspetto particolarmente interessante e promettente è rappresentato dalla persistenza di questi benefici per un intero mese successivo all’interruzione del trattamento. Questo impatto duraturo suggerisce che il farmaco potrebbe non limitarsi a mascherare i sintomi clinici, ma potenzialmente intervenire sui meccanismi patogenetici sottostanti, modificando il decorso stesso della malattia.
Nei modelli animali testati, l’efficacia di UB-SCG-74 ha dimostrato di superare sia quella del donepezil, un farmaco attualmente impiegato nel trattamento sintomatico dell’Alzheimer, sia quella dell‘ibuprofene, un noto farmaco antinfiammatorio non steroideo. Inoltre, i rigorosi test di sicurezza condotti non hanno evidenziato alcun segno di tossicità associato alla somministrazione di UB-SCG-74, un dato fondamentale che supporta fortemente l’avvio della fase di sviluppo preclinico avanzato del composto, propedeutica alla sperimentazione sull’uomo.
Per decenni, la ricerca sull’Alzheimer si è prevalentemente concentrata sull’approccio di rimuovere le placche di beta-amiloide dal cervello come potenziale strategia curativa. Questa strategia si è spesso rivelata infruttuosa, con numerosi farmaci mirati alle placche che, negli ultimi dieci anni, non hanno dimostrato benefici clinici sufficienti per giustificarne l’impiego nei pazienti.
Il team che ha sviluppato UB-SCG-74 propugna un cambio di paradigma terapeutico, ritenendo che contrastare l’infiammazione cerebrale possa rappresentare una strategia più efficace per proteggere il tessuto nervoso e rallentare la progressione della malattia. “Le strategie sperimentate senza successo negli ultimi dieci anni hanno preso di mira specificamente l’accumulo di beta-amiloide e la formazione di placche nel cervello, ma ci sono prove sempre più consistenti che la neuroinfiammazione sia una delle principali cause del morbo di Alzheimer“, hanno chiaramente espresso gli autori dello studio.
Il nuovo composto UB-SCG-74 agisce ripristinando il delicato equilibrio delle molecole infiammatorie all’interno del cervello. Non si limita a ridurre i livelli di citochine pro-infiammatorie dannose, ma incrementa anche la concentrazione di molecole endogene che esercitano un’azione antinfiammatoria. Questo impatto ad ampio spettro, che agisce simultaneamente su diverse vie patogenetiche coinvolte nella malattia, potrebbe spiegare l’efficacia del trattamento nel preservare i neuroni e nel proteggere le funzioni cognitive nei modelli animali.
Mercè Pallàs, una delle principali ricercatrici coinvolte nello studio e scienziata presso l’Università di Barcellona e il CIBERNED, sottolinea come l’azione antinfiammatoria esercitata da UB-SCG-74 sia strettamente correlata anche a un miglioramento significativo del flusso sanguigno a livello cerebrale. Gli acidi epossieicosatrienoici (EET), la cui degradazione è inibita da UB-SCG-74, svolgono un ruolo cruciale nel mantenere la salute e la funzionalità dei vasi sanguigni cerebrali.
Pertanto, l’inibizione dell’enzima sEH permette al cervello di conservare una migliore microcircolazione. Questo effetto protettivo sul sistema vascolare cerebrale potrebbe offrire un’ulteriore protezione contro eventi ischemici, come l’ictus o la perdita di ossigeno, che spesso tendono ad esacerbare i sintomi e la progressione della malattia di Alzheimer.
Preservazione strutturale e funzionale delle reti neuronali oltre il semplice sollievo sintomatico
L’impatto del trattamento con UB-SCG-74 nei modelli murini di Alzheimer non si è limitato a un miglioramento delle performance nei test di memoria. L’analisi microscopica del tessuto cerebrale degli animali trattati ha rivelato una condizione cellulare significativamente più sana. In particolare, i dendriti, le delicate ramificazioni neuronali essenziali per la formazione delle sinapsi e la comunicazione intercellulare, apparivano preservati.
Analogamente, l’architettura complessiva delle reti neurali, fondamentale per l’integrità delle funzioni cognitive, manteneva una struttura intatta. Questi risultati trascendono la semplice attenuazione temporanea dei sintomi, suggerendo che il farmaco potrebbe possedere la capacità di arrestare o addirittura invertire il danno cerebrale progressivo caratteristico della malattia.
Santiago Vázquez, un altro autore principale dello studio afferente all’Università di Barcellona, ha sottolineato la crucialità di questi risultati morfologici e funzionali: “Questo potrebbe contribuire in modo significativo a preservare la funzione neuronale e a ridurre la morte cellulare che è intrinsecamente associata al morbo di Alzheimer”. L’osservazione che tali effetti neuroprotettivi persistano anche dopo l’interruzione del trattamento farmacologico suggerisce un meccanismo d’azione che va oltre la mera gestione sintomatica, implicando una potenziale modulazione del modo in cui la malattia si manifesta e progredisce nel tempo.
Nonostante i risultati preclinici estremamente promettenti ottenuti nei modelli animali, i ricercatori riconoscono che un significativo lavoro rimane da compiere prima che UB-SCG-74 possa essere reso disponibile per l’utilizzo clinico negli esseri umani. Lo sviluppo di un farmaco è un processo meticoloso e prolungato, che richiede il completamento di ulteriori test di laboratorio approfonditi, seguiti da studi clinici rigorosi condotti su pazienti affetti da Alzheimer. Questi studi saranno essenziali per confermare sia il profilo di sicurezza del farmaco nell’uomo sia la sua reale efficacia nel contrastare la progressione della malattia.
L’Università di Barcellona ha formalmente concesso in licenza il brevetto relativo a UB-SCG-74 a un’azienda farmaceutica statunitense, che assumerà la guida delle prossime fasi cruciali del processo di sviluppo clinico. Le professoresse Pallàs e Vázquez collaborano attivamente con l’azienda in veste di consulenti scientifici, con l’obiettivo primario di garantire che il progetto rimanga focalizzato sull’obiettivo di contrastare la neuroinfiammazione e di portare rapidamente il farmaco alla disponibilità dei pazienti.
Questo lavoro di ricerca non vede coinvolto unicamente il team di Barcellona. Scienziati di prestigiose istituzioni, tra cui l’Istituto di Ricerca Biomedica di Barcellona, l’Istituto di Ricerca Biomedica August Pi i Sunyer, il Centre for Biomedical Research Network (CIBERNED) e l’Università di Bonn, partecipano attivamente a questo progetto di ricerca settennale.
Questa collaborazione multidisciplinare testimonia come un approccio innovativo e un ripensamento dei meccanismi patogenetici dell’Alzheimer possano aprire nuove e inaspettate vie terapeutiche. Invece di concentrarsi unicamente sulla rimozione delle placche amiloidi dopo la loro formazione, la strategia di proteggere il cervello prima che il danno diventi eccessivo si sta rivelando promettente. È in questo contesto che gli inibitori dell’enzima epossido idrolasi solubile (sEH), come UB-SCG-74, potrebbero rappresentare un punto di svolta.
Bloccare l’attività dell’enzima sEH si traduce in un controllo più efficace dell’infiammazione cerebrale, nel miglioramento del flusso sanguigno, nella prevenzione della morte neuronale e nel potenziamento delle funzioni cognitive, agendo simultaneamente su diversi meccanismi patologici interconnessi. Questo approccio terapeutico ampio e multi-target potrebbe emergere come un nuovo standard nel trattamento della malattia di Alzheimer, soprattutto alla luce dell’inefficacia dimostrata dalle precedenti strategie focalizzate su un singolo bersaglio molecolare.
Se i futuri studi clinici sull’uomo confermeranno i promettenti benefici osservati nei modelli animali, questo trattamento potrebbe non solo rallentare la progressione della malattia, ma potenzialmente modificarne radicalmente il corso evolutivo, offrendo una speranza tanto necessaria alle famiglie colpite dalla demenza e avvicinando la medicina all’obiettivo ultimo di una cura definitiva per l’Alzheimer.
Lo studio è stato pubblicato su ACS Pharmacology & Translational Science.