Le allarmanti notizie che provengono dalla Cina sull’epidemia del nuovo coronavirus che dai pipistrelli, passando per i serpenti, ha fatto il salto di specie, stanno preoccupando l’opinione pubblica internazionale per una possibile, pericolosa e letale pandemia.
Ci sono però malattie che ancora oggi mietono un pesante tributo di vittime umane e di cui forse in occidente abbiamo una percezione molto limitata.
La malaria è probabilmente la malattia che ha causato il maggior numero di morti nella storia dell’umanità. Ancora oggi, secondo stime al ribasso, ci sono da 300 ai 500 milioni di nuovi casi di malaria l’anno, con almeno 2 milioni di decessi concentrati soprattutto in Africa.
La parola malaria significa letteralmente “aria cattiva” per la convinzione largamente diffusa in Italia per molti secoli che questa terribile malattia fosse provocata da nebbie tossiche e miasmi provenienti da aree paludose e stagnanti. Ci sono quattro specie diverse del parassita responsabile della malaria (genere Plasmodium): il P. Vivax, il P. Falciparum, il P. Malarie e il P. Ovale.
Tutti causano i sintomi classici della malaria febbre alta, brividi e feroci mal di testa. Il più letale di questi parassiti è il P. Falciparum che spesso conduce alla morte. Come è noto la malaria si trasmette agli esseri umani attraverso la puntura della zanzara anofele. Noi oggi consideriamo la malaria una malattia tropicale o sub tropicale ma fino a poche decine di anni fa questo flagello era diffuso in larga parte del mondo arrivando ad infestare persino zone della Scandinavia.
In tutti i luoghi dove la zanzara anofele prosperava, lì i focolai di malaria erano periodici e talvolta devastanti. Molte sono state le vittime illustri nel corso della storia di questa malattia che colpiva indiscriminatamente ricchi e poveri. Solo per citarne due, il grande condottiero macedone Alessandro Magno è morto probabilmente in seguito ad un attacco di malaria così come, molti secoli dopo, l’esploratore inglese David Livingstone.
La malaria è stata un grave problema a livello mondiale fino al XX secolo inoltrato. Ancora nel 1914 nei soli Stati Uniti si registrarono 500.000 casi di malaria e nel 1945 due miliardi di esseri umani vivevano in zone malariche.
Va da sé che l’uomo ha sempre cercato rimedi contro questo flagello e la prima molecola veramente efficace per contrastare gli effetti della malattia fu la chinina, uno dei trenta alcaloidi presenti nella corteccia dell’albero della china.
Sull’origine della scoperta di questa preziosa molecola ci sono varie leggende, una delle più accreditate riguarda la seconda moglie del viceré del Perù Luis Jerónimo de Cabrera, Francisca Henríquez de Ribera che, ammalatasi di malaria fu curata con delle bacche di chinina guarendo. Al di la della veridicità di questa ricostruzione su cui gli storici avanzano oggi seri dubbi, le proprietà della corteccia dell’albero di “cinchona” sono indiscutibili. La fama che la corteccia di china era in grado di guarire dalla malaria si diffuse rapidamente in Europa.
Intorno al 1630 il gesuita Bernabé Cobo (1582-1657), che esplorò Messico e Perù, introdusse il chinino in Europa. Portò le bacche da Lima in Spagna, e poi a Roma ed in altre parti d’Italia nel 1632. Il conclave del 1655 fu il primo in cui, grazie all’assunzione di quella che veniva chiamata anche “la polvere dei gesuiti” non morì nessun cardinale per malaria.
Il chinino venne estratto dalla corteccia dell’albero della china e fu isolato e così chiamato nel 1817 dai ricercatori francesi Pierre Joseph Pelletier e Joseph Bienaimé Caventou. Il nome deriva dalla parola originale quechua (Inca) usata per la corteccia dell’albero cinchona, “Quina” o “Quina-Quina”.
La domanda di chinino aumentò in tutto il mondo anche in relazione al processo di colonizzazione in atto. Soprattutto gli inglesi ne divennero grandi consumatori utilizzando il chinino anche come terapia preventiva prima di inviare funzionari o soldati nello sterminato impero coloniale britannico. Anche stavolta come già accaduto in passato per altre molecole, furono trafugati i semi dell’albero di cinchona per non dipendere dalle importazioni sud americane. Stavolta a riuscire nell’impresa furono gli olandesi che trapiantarono questa pianta a Giava che nel 1930 divenne il centro esportatore del 95% della chinina.
A debellare la malaria soprattutto nella parte occidentale del mondo fu però l’uso massiccio di un’altra molecola, Il para-diclorodifeniltricloroetano o DDT.
Fu il primo insetticida moderno ed è senz’altro il più conosciuto; venne usato dal 1939, soprattutto per debellare la malaria. In Italia si ricorda, in particolare, il suo uso a questo scopo in Sardegna, dove la malattia era endemica e ne consentì l’eradicazione. La sua scoperta come insetticida va attribuita al chimico svizzero Paul Hermann Müller, alla ricerca di un prodotto efficace contro i pidocchi, ma la sua nascita risale al chimico austriaco Othmar Zeidler, che lo sintetizzò nel 1873.
Fu scelto come prodotto per combattere la zanzara anofele, responsabile della diffusione della malaria, in quanto si credeva che, sebbene altamente tossico per gli insetti, fosse innocuo per l’uomo. Successivamente il DDT fu indicato come possibile cancerogeno e bandito nel 1972 negli Stati Uniti e nel 1978 anche in Italia.
Dobbiamo però a quest’insetticida se Europa e Stati Uniti hanno debellato questa terribile malattia che continua a prosperare in altre parti del pianeta.
Fa più morti la malaria che…
Ancora oggi la malaria è una delle cause di morte principali nel mondo. La sua eradicazione in Italia avvenne grazie all'uso del DDT.
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